TERRE NON SANTE

Natale in Palestina, Capodanno in Iraq


Fiumicino-Atene-Amman con Aegean Airlines; con un'auto a noleggio fino a Petra per visitare lo spettacolare sito archeologico, Patrimonio dell'Unesco dal 1985.
Un bagno nel mar morto e restituita la vettura al confine, ingresso in Israele attraverso l'Allenby Bridge. Senza sosta a Jericho, in Palestina dove credevamo di trovare un'aria pesante: qualche settimana prima l'annuncio che l'ambasciata statunitense sarebbe stata trasferita a Gerusalemme. "Sconsigliati i viaggi in Cisgiordania", ma la prima notte eravamo già a Ramallah.
Il giorno dopo a Gerusalemme e, noleggiata un'auto con targa israeliana prima Betlemme ed Hebron e poi, dal versante israeliano, il confine con Giordania/Siria/Libano, incluso le Alture del Golan. La sfida con le paranoiche milizie con la stella di David al petto, sconfitte nella "battaglia" di Jenin...
Due giorni a Nablus e poi, salutato il compagno di viaggi a Tel Aviv, quattro giorni a Cipro per riordinare le idee. E ricominciare.
Da Ankara, prima di volare in Tuchia orientale, a Batman In bus a Cizre e poi Silopi, nello "spigolo" Turchia-Siria-Iraq: non esattamente il luogo più tranquillo del pianeta. Gli ultimi 15 km con i carrarmati dislocati lungo il confine: sono nel Kurdistan turco.
Ma non mi basta.

Voglio andare in IRAQ.

E ci andrò.


PETRA/البتراء‎


Patrimonio dell'umanità dall'UNESCO dal 1985, dal 1995 la zona circostante è parco nazionale archeologico.
Nel 2007 Petra è stata dichiarata una delle sette meraviglie del mondo moderno.
Avevo sottovalutato Petra e la Giordania perché, per mia consolidata abitudine, preferisco evitare, per quanto possibile i luoghi esclusivamente "turistici".
Riconosco che non Petra -e poi tutto il Paese- mi sono dovuto ricredere. La visita del sito archeologico, a circa 250 km a sud di Amman lascia davvero esterrefatti.




LE ALTURE DEL GOLAN


Il saggio proposito, almeno stavolta, di non esagerare, era saltato poche ore dopo aver messo piede in Palestina.
Provenienti dalla Giordania (la spettacolare Petra, un tuffo nel mar Morto) attraverso l'Allenby bridge, la poliziotta di frontiera israeliana, inaspettatamente simpatica oltre che professionale, ci aveva rassicurato circa la sicurezza nel suo Paese. E la passeggiata esplorativa a Jericho, la nostra porta d'ingresso in West Bank, aveva confermato le prime sensazioni: anche qui faremo come piace a noi.
Manco a dirlo, la prima notte eravamo già riusciti ad arrivare nella "terribile" Ramallah, compresi i selfie con i poliziotti nella piazza centrale, la stessa dove gli inviati delle Tv di mezzo mondo, fintamente terrorizzati e protetti da poderosi giubbotti antiproiettile,
descrivono con enfasi quello che (spesso non) succede da quelle parti.
La giornata successiva interamente dedicata alla visita di Gerusalemme, tagliata in due da un muro alto otto metri: bello e affascinante il lato ovest, più interessante quello est.
"E' la mia Capitale". "No è la mia".

Il nostro Ministero degli Esteri, attraverso il sito istituzionale "Viaggiare(in)sicuri" ammonisce:
"In Cisgiordania le aree a nord di Jenin e Nablus e quelle nei dintorni di Hebron presentano livelli di rischio più elevato e continuano pertanto a essere sconsigliati viaggi in tali zone, soprattutto se intrapresi con iniziative improvvisate al di fuori di visite coordinate da organizzazioni locali."
Faremo tesoro di questi preziosi suggerimenti...la prossima volta.

Noleggiata una splendida Nissan Micra, prima tappa Betlemme, circondata da un altro muro israeliano; il tempo di uno show davanti alle telecamere di Nablus Tv e senza soste verso Hebron. Cinque ore ad alta intensità emotiva, per poi perderci, più o meno consapevolmente, nel deserto nel vano tentativo di raggiungere il mar Morto percorrendo la via più breve.
Pernotteremo per la seconda volta al Sami Hostel di Jericho, dove ormai eravamo di casa e ben oltre la mezzanotte, davanti ad un tè bollente, in un caffè della tranquilla piazza centrale della città, mappe e Gps alla mano, illustravo al mio compagno di viaggi l'itinerario del giorno successivo:
"Risaliamo il confine con la Giordania lungo la strada 90 fino al lago di Tiberiade. Ce lo facciamo in senso antiorario con la 92 e poi prendiamo la 87. In venti km siamo al confine con la Siria e lo risaliamo fino allo spigolo con con il Libano. Dobbiamo fare la 999, questa bella strada di montagna che segue il confine con il Libano. Poi se c'è tempo un salto a Nazareth altrimenti direttamente in West Bank e passeremo la notte a Jenin"
Massimiano:"Te sei matto"
"Perché te che me assecondi credi di essere normale?"



Dopo il sonno ristoratore, parzialmente interrotto dalla preghiera delle 05,00 (por§* #*%o$$*), di buon mattino siamo pronti a partire: massimiano al volante, io accanto, addetto alle mappe.
Buon viaggio. E buona fortuna. Ce ne servirà abbastanza.
L'umore è alto, i 150 km di strada 90 lungo il confine con la Giordania sono facili da percorrere, senza traffico e senza intoppi. Il monotono panorama desertico è spezzato da vivai di palme e serre di ortaggi; breve sosta in una panetteria al giorno dell'inaugurazione e rapidamente siamo al confine West Bank-Israele, superato senza alcuna noia burocratica.
"Adesso siamo in Israele!"
"Perché prima?"
Con questi vige la regola "il mio è mio e il tuo (quello palestinese, ma non solo) pure è mio"
Rapida visita della non bella Beit She'an, una puntata al Jordan River Crossing, un altro dei tre punti di frontiera ufficiali Israele-Giordania, e siamo già sul lago Tiberiade. Non bello, nemmeno interessante. Ma, dicono, ispirò miracoli. E allora per non esser da meno camminerò anche io, con successo, sulle acque...
Visitato anche il porto di Ei Avn, ci addentriamo nel cuore delle Alture del Golan. L'atmosfera è diversa, qui passa la voglia di scherzare. Siamo in una porzione di territorio siriano, "de facto" occupato militarmente e amministrativamente -senza riconoscimento da parte delle Nazioni Unite- da Israele dal 1967, dopo la guerra dei sei giorni.
Sebbene da molti anni non vi siano scontri armati sono ben evidenti i segni di quello che è successo e che potrebbe ripetersi da un momento all'altro. Autovetture civili col contagocce, in compenso incrociamo e ci sorpassano una quantità enorme di mezzi militari, più o meno blindati, di ogni dimensione. Ai margini della strada, carcasse di mezzi cingolati fino ad incontrare un'area di sosta con tanti carrarmati, questi in buono stato. Sembrano giocattoli in bella mostra, e mentre scattiamo foto, dal nulla sbucano due soldati che ordinano:
"Queste le devi cancellare".
"Va bene"

Ma intanto ci aveva pensato Massimiano, col suo "aifon", ad immortalarli. Dilettanti.
Tanti cartelli di pericolo e di divieto assoluto di accesso. E quelli, senza che ce lo dica "Viaggiare (in)sicuri", non li supereremo mai. Ma non resisteremo alla tentazione di visitare e scattare foto a quel che resta di un sistema di trincee collegate con tunnel pedonali, probabilmente ancora percorribili.
Proseguiamo verso nord accompagnati da inquietanti rimbombi d'artiglierie.
"Dai, saranno fuochi d'artificio"
"Sì, stocazzo..."
"A che distanza staranno sparando?"
E mentre ipotizziamo "il più lontano possibile", un'altra esplosione. Meglio tacere. E guardare avanti.
"Ma siamo in Siria o in Israele?" Domanda a cui daremo (qualche) risposta durante la sosta a Mas'ada; le persone sono troppo gentili per essere israeliani. Ed infatti, non lo sono. Parlano siriano, hanno cultura siriana e non potrebbe essere altrimenti. Mas'ada è una città siriana.
"Ma allora, siamo entrati in Siria senza passare per la frontiera?!?"
Ovviamente no. Stiamo toccando con mano come si vive nelle Alture di Golan la regione della Siria occupata e controllata dagli israeliani. I siriani che vivono qui sono apolidi: non hanno diritto al passaporto siriano, men che mai a quello israeliano. Queste -e tante altre cose- ce le diranno nella panetteria dove faremo sosta per una porzione di delizioso Knafeh, accompagnato dall'immancabile tè bollente. Ci accoglieranno con sorrisi spontanei, un'ineguagliabile cortesia e una curiosità mai invadente. Nadeen, la figlia teenager dei gestori parla inglese perfettamente, ci racconta del suo viaggio a Barcellona sponsorizzato dall'Onu e sogna Parigi.
"Mi piace tanto viaggiare, ma senza passaporto è impossibile, beati voi che potete..."
Una pugnalata.
"Dove siete diretti?"
"...Vorremmo arrivare fino al confine con il Libano e poi percorrere la strada 999. Sai se è aperta?"
"No, ma se restate qui stasera con i miei amici vi porto a Majdal Shams, ci sono tanti bei locali e si possono anche bere alcolici..."
"No, grazie, non beviamo". "E nemmeno fumiamo".
Meglio andar via...altrimenti ci lasciamo il cuore.



Riprendiamo il viaggio lungo la 98 e si comincia a salire, ben oltre i mille metri -Jericho, da dove eravamo partiti, si trova a 260 metri sotto il livello del mare- e attraversiamo Majdal Shams che non è bella ma ci piace lo stesso per non far torto a Nadeen.
Siamo ormai a pochi km dalla meta, lo spigolo Israele-Siria-Libano, il punto da cui parte questa, ormai "leggendaria", 999. E ancora non abbiamo certezza sulla sua percorribilità. Incrociamo un gruppo di motoamatori -e, naturalmente, la nostra mente vola per un istante alla notte di Piura - e a loro chiediamo lumi.
"Neve non ce n'è, dovrebbe essere aperta"
"Ah, beh! Se il problema fosse la neve..."
Finalmente siamo in cima. Si apre un enorme piazzale tipo casello autostradale; i resort sono desolatamente vuoti. Gli impianti di risalita, ben segnalati anche sulle mappe, tristemente fermi. Ma noi non eravamo lì per sciare:
"Dove cazzo sta questa 999?"
Eccola!
Completamente sbarrata con tanto di filo spinato ed espliciti cartelli di pericolo di morte.
Game over.

Non ci resta che ripercorrere nel verso opposto, stavolta in discesa, gli 8 km fino a Majdal Shams, prendere la 989 e puntare verso Nazareth.
"Abbiamo tutto il tempo per arrivare a Jenin prima di notte."
Avevamo fatto i conti senza l'oste israeliano. Ma loro, gli israeliani, non sapevano con chi avrebbero avuto a che fare.
Stavamo per vivere la notte più folle.




Israeliani e palestinesi condividono un territorio di circa 28.000 kmq, tra Libano, Siria, Giordania, Egitto e Mar Mediterraneo. Cinque milioni e seicentomila (circa) palestinesi vivono segregati in due regioni discontinue, la West Bank e la striscia di Gaza. L'intera West Bank è contenuta nel territorio israeliano e, dunque, per accedervi bisogna necessariamente passare attraverso Israele. Basta guardare una mappa e scoprire che Jericho, la città più orientale della West Bank, dista pochi km dalla Giordania.
A Gaza, invece, si accede anche dall'Egitto. Ma è più corretto dire SOLO dall'Egitto. Con Israele la frontiera è chiusa anche agli stranieri e passa solo chi dispone di un "permesso speciale". Rilasciato da Israele, ovviamente.
Ad una (bella) ragazza palestinese, di Nablus, chiedevo:
"E se ti fidanzi con un ragazzo di Gaza come fate a vedervi?".
Da Gaza in Egitto, Mar rosso, Giordania, Allenby Bridge/Check point di Israele, Jericho e Nablus...

Anni fa, ai tempi di Arafat, era in dirittura di arrivo il progetto di un corridoio protetto strada/ferrovia che collegasse direttamente Gaza e West Bank, ma non se ne fece nulla.
Non c'è aeroporto a Gaza (c'era, ma gli israeliani lo hanno fatto chiudere), nè in West bank. Amman in Giordania e Tel Aviv gli scali più vicini, con tutte le restrizioni e i disagi che ne conseguono. Sulla striscia di Gaza incombe anche l'embargo marino. Se una nave provasse ad avvicinarsi alla costa finirebbe in fondo al Mediterraneo ben prima di spiegare il motivo per cui è capitata da quelle parti.
Ufficialmente in territorio della West Bank è diviso in tre aree: A, B, C; la prima è di competenza esclusiva dei palestinesi, la seconda al 50% (le vie di collegamento) e la terza solo di Israele. Ed infatti vagando per la West bank si scoprono assurde enclavi israeliane interamente recintate con un unico accesso controllato da un cancello giallo scorrevole. Presidiato da guardie armate. Ci vivono -male, malissimo- piccoli nuclei di (paranoici) ebrei. I palestinesi, ovviamente, non possono accedere.
La domanda nasce spontanea: ma perché sono lì?
Abbiamo provato più volte ad entrare, ma la risposta è stata sempre la stessa:
"Qui non potete entrare" con tono rude e spaventato, la risposta.
Ma "tanto va la gatta al lardo...", ci siamo riusciti. Forse il poliziotto si è distratto, forse s'è confuso -la nostra auto aveva targa israeliana- ma a Metzad ci hanno fatto entrare. Un posto orribile, baracche prefabbricate, strade in pessime condizioni, sporcizia. Parcheggiamo nella piazzetta centrale e scendiamo con circospezione. All'ingresso di un container-supermercato tre uomini si accorgono di noi e li tranquillizziamo:
"Siamo italiani".
Sorrisi di circostanza, ma da parte loro, distacco e diffidenza.
Breve e inconcludente giro a piedi e poi in auto tutto il perimetro del campo. Immediatamente si accosta un Pick Up, il conducente ci fa:
"What are you looking for? Are you looking for someone?"
..."TUA SORELLA" -all'unisono- la nostra risposta. Ma meglio andar via...
La zona A, quella di esclusiva competenza palestinese, è sostanzialmente limitata alle città di Hebron, Betlemme, Jericho, Jenin, Nablus e poche altre più piccole. Ma di fatto non è così. Ad Hebron, ad esempio, una colonia di 50 famiglie ebree ha offerto il pretesto alle truppe di israele di occupare militarmente un intero quartiere. Stessa cosa a Nablus, dove vivrebbe un'unica famiglia; sul punto più alto della città svettano le luci, le torrette e le antenne della milizia israeliana che controlla la città.
Squadre di polizia israeliana, in spregio agli accordi, entrano -anche di notte- nelle città palestinesi e hanno il diritto di fermare e controllare gli abitanti. Lo abbiamo visto con i nostri occhi a Nablus.
La West Bank è quasi completamente recintata da doppia barriera metallica. Un inquitante muro alto otto metri divide Gerusalemme est ed ovest, un manufatto di cemento della stessa altezza circonda anche la città "santa" di Betlemme.
Ho provato dolore quando ho visto con i miei occhi, dal vivo, quell'infame "Arbeit macht frei"; rabbia e disgusto davanti a quel muro.



DA NAZARETH A JENIN


Quella notte in cui beffammo Israele

L'escursione sul Lago di Tiberiade e alle Alture di Golan ci aveva completamente soddisfatto (!). Non ci restava altro che rientrare in Cisgiordania: il nostro programma prevedeva di passare la notte a Jenin. Chiusa la strada 999, quella che corre parallela al confine con il Libano, non restava altro che percorrere i 180 km che ci separavano dalla meta, trenta dei quali, sulla strada 99, in mezzo ad un campo minato.

Nel tardo pomeriggio eravamo già nella deludente Nazareth e visitata rapidamente la chiesa della natività, di nuovo in marcia per completare il tragitto di Strada 60. Attraversata Afula, ultima città israeliana verso sud eccoci al confine. Ci "accoglie" una struttura esageratamente grande. E desolatamente vuota.
"Sarà mica chiuso...?".
Chiuso.
Tre ragazzi palestinesi seduti su una panchina ci confermano che a quell'ora non si passa; si offrono di scortarci:
"Tra poco passeranno a prenderci, seguiteci, andiamo anche noi verso Jenin".
Troppo facile così, cercheremo una soluzione "fa da noi": cominciava la notte più folle.
Apparentemente non c'è nessuno, ma in cima ad un terrapieno svetta un edificio protetto da un enorme cancello. All'interno della barriera scorgo un soldato di guardia ben protetto all'interno di una torretta; provo a salutarlo ma, ovviamente, mi ignora.
Continuo:
"Sorry"...sorry...we are italian, we got lost along the way to Jenin".
Il ragazzo in divisa, sorpreso più che spaventato, non si avvicina ma con inattesa gentilezza mi dice che quel valico è aperto soltanto alle 9,00 alle 16,00.
"Yes, but...",
provo a mettere in campo tutta la mia abilità diplomatica e il solito show (con tanto di preghiera a mani giunte) pare sortire l'effetto sperato:
"Aspetta, chiedo al comando se possiamo farvi passare".
"Yesss!! è fatta!", pensavo con un misto di orgoglio e (moderata) soddisfazione.
"Ma te pare che nun ce facevano passà a noi due!?", rincara Massimiano.
Si apre il cancello, si avvicina un altro soldato che controlla i nostri passaporti, e tira dritto. I minuti trascorrono e l'ottimismo comincia a vacillare. Per azzerarsi quando, trascorsa ormai mezzora, al posto di guardia sopraggiunge un altro militare, che, dopo aver confabulato con il collega, ci chiede con insolenza:
"Chi siete?"
"Turisti, diretti a Jenin..."
"Jenin? very bad, very bad" e con un inequivocabile gesto della mano ci manda "a quel paese".
"Very bad tua sorella", la nostra risposta; ma è evidente che la battaglia è persa. Ed infatti qualche istante dopo Rambo decide che ci dobbiamo levare dalle scatole; finge di fare una telefonata e ci dirà, stavolta senza mezzi termini, che quel valico riaprirà soltanto la mattina successiva.
"Bye bye"



Torniamo in auto e, mappe alla mano, a me il compito di cercare un altro valico: proviamo quello sulla parallela Strada 66, a 20 km circa di distanza. Delusi per il tentativo fallito, decantata in fretta la rabbia -questi imprevisti li teniamo sempre in conto e, in fondo, ci esaltano- in pochi minuti siamo nei pressi dell'altro punto di valico, meno appariscente, ma altrettanto, malinconicamente, vuoto.
"Ma no, chiuso pure questo!"
"..."
"Ma i ragazzi palestinesi che strada hanno fatto?"
Scendo dall' auto cercando qualcuno, un indizio, un cartello: niente. Non è freddo, ma buio pesto a parte i riflettori gialli puntati sui cancelli che sbarrano la strada; si sprecano gli insulti agli israeliani, ma intanto bisogna trovare una soluzione. Google Maps indica un valico lungo la strada 6535 segnata in bianco, a 25 km a sud est.
"Deve essere per forza aperto, quello."
Non ci resta che che tornare indietro per qualche km, poi a sinistra, ancora a sinistra e riprovarci. Ma a destra della barriera scorgiamo una strada -non segnata sulla mappa cartacea in nostro possesso, né su quella digitale- che sembra svilupparsi parallelamente al confine e, ad intuito, punta nella direzione che serve a noi.
"La prendiamo?"
Nessun dubbio. Go ahead!
La strada è ben pavimentata, con una chiara segnaletica orizzontale; la scarsa illuminazione non riesce a nascondere un'inquietante barriera metallica che protegge entrambi i lati della carreggiata. Stiamo procedendo in un corridoio chiuso, senza svincoli, con torrette militari, non presidiate, che si susseguono senza regolarità, ma con elevata frequenza.
"Stiamo andando nella direzione giusta?" chiede -legittimamente- Massimiano al volante.
"Ad occhio, direi di sì"
"Che vor dì a occhio?"
"...Che questa strada non esiste sulla mappa, però il pallino blu del Gps si sposta proprio dove vorrei io. Ti fidi di me?".
"Mi fido di te."
Proseguiamo, sale la tensione.

"Mi sa che stavolta l'abbiamo fatta grossa".
"Un po' di paura ce l'ho", ammette Massimiano.
Anche io, ma proviamo a ragionare. Paura di cosa? Escludo che qualcuno ci assalga e derubi in quel posto.
"Al limite potrebbero spararci."
"..."

Meno di 15 km chilometri percorsi, ma sembra averne fatti cento. Non abbiamo incontrato anima viva, l'unica buona notizia continua a darla il pallino blu del Gps del mio telefono che, sebbene continui a muoversi in una zona "grigia" della mappa, punta proprio verso la Strada 6535. (Che poi non è detto che sia la soluzione al problema, ma quantomeno sappiamo dove stiamo andando. E poco non è...)
Infine, in un delirio di luci il solito, immenso, "casello" ormai a noi familiare: un altro punto di valico israeliano. Ovviamente non segnalato sulle mappe, ma ben presidiato.

"Calma e sangue freddo, questi sparano al minimo gesto sospetto".
A bassa velocità e senza accelerazioni, Massimiano conduce il veicolo verso il posto di blocco, arrestandolo ad una ventina metri di distanza in posizione leggermente obliqua in modo che i fari, che non spegneremo mai, non infastidiscano chi punterà lo sguardo verso di noi. Un gruppo di soldati dietro ad un pilastro ci osserva, senza fare nulla; tocca a noi la prima mossa, certo.
Urliamo: "Sorry...we are italian, tourist!".
Lo ripetiamo più volte, ma, apparentemente ci ignorano. Ci illuminano con un potente flash giallo per qualche secondo e, finalmente, si apre il cancello. Quattro militari, dotati di enormi fucili, protetti da armamentario antiproiettile, si avvicinano alla macchina, immediatamente sottoposta al controllo del metal detector.
"Who are You?"
"We are tourist, italian..."
"Passport, please!"
"Pronto!"
"WHAT ARE TWO ITALIANS DOING HERE?" "YOU SHOULD BE NOT HERE!"
"Se ci siamo arrivati fin qui e non dovevamo arrivarci, sarà un po'colpa tua?".
(Questa non gliel'abbiamo detto. Ma lo abbiamo pensato).

Rotto il ghiaccio, l'atmosfera tutto sommato è rilassata; uno dei soldati rientra alla base con i passaporti, gli altri ci controllano a vista, ma senza agitazione. Provo anche a fare il simpatico, ma ovviamente non reggono il gioco. La pelle è salva, ma come andrà a finire? Ci faranno tornare indietro? Ci arresteranno? Dovrà partire dall'Italia il Ministro degli Esteri?
Ancora qualche minuto e arriva una soldatessa che ci riconsegna i passaporti e con tanto, ma proprio tanto, livore ci fa:
"How did You get here?"
Le rispondo evitando di dirle che eravamo stati (quasi) in Siria quella mattina stessa e le descrivo solo il percorso da Nazareth.
"Dobbiamo andare a Jenin, ma era chiuso il confine sulla 60 e pure quello sulla 66; lì abbiamo preso questa strada ed eccoci qui."
"Ma era aperta? Non c'era un cancello? Non c'era un segnale di divieto?"
"No, tesoro...:)"
Schiumante di rabbia, rambo in gonnella mi fa:
"Where did you find this road on the map?" "Which app do You use?"
Con calma le rispondo:
"Google map...if you want I will show it"

Mi concede il permesso di scendere dall'auto, (con due fucili puntati verso di me) e le mostro l'itinerario che avevamo seguito evidenziando il "pallino" blu del Gps.
Per un solo istante il mio e il suo sguardo si incrociano; nei suoi occhi è dipinta rabbia, disprezzo, odio. Se avesse potuto, ci avrebbe fatto a pezzi...
E, invece, no. Per decenza ometto una "pittoresca" espressione del mio dialetto che ben si adatterebbe a descrivere quel momento, ma il risultato è che, loro malgrado, sono stati costretti ad alzare le sbarre di quel "segretissimo" (!) punto di valico.
"Potete passare."

Sono quasi le 22,00 di una tiepida notte di dicembre: un romano e un napoletano, a bordo di una piccola Nissan Micra presa a nolo a Gerusalemme due giorni prima, avevano messo in imbarazzo il "prestigioso" e "inviolabile" (!) sistema di difesa israeliano.






KURDISTAN, IL PAESE CHE NON C'E'


E' una nazione, ma non uno Stato sovrano con una popolazione stimata in circa 35 milioni, residente tra il sud-est della Turchia, il nord-ovest dell'Iran, il nord dell'Iraq e il nord-est della Siria. Comprendere la questione curda e perché non esiste il Kurdistan è apparentemente complicato e bisognerebbe partire da molto lontano. Almeno dalla fine dell'Impero ottomano quando, uscito sconfitto dalla I° guerra mondiale, venne smembrato e ridimensionato con il Trattato di Sèvres del 1920. L'accordo prevedeva la possibilità per la minoranza curda di ottenere l'indipendenza in un proprio Stato, ma non se ne fece nulla, perché a seguito della Guerra Turca d'Indipendenza (1920-1923) Ataturk -il "Padre dei turchi"- costrinse le ex potenze alleate a tornare al tavolo della negoziazione e a ratificare un nuovo Trattato (Losanna 1923), che cancellò ogni concessione alle minoranze curde. In realtà è tutto spiegabile molto semplicemente: il Kurdistan è una delle terre più ricche del mondo. Dalle sue montagne del nord nascono il Tigri e l'Eufrate le cui acque rendono i terreni fertili per l'agricoltura. Nel sottosuolo c'è carbone, oro, uranio. E, soprattutto, petrolio: la riserva petrolifera del Kurdistan è tra le principali del pianeta. Il petrolio in Turchia, Iraq, Iran e Siria, guarda caso, si trova prevalentemente nei territori che, fino al 1920, appartenevano ai curdi. Dunque è soltanto per mettere le mani sull'oro nero -con l'immancabile presenza di francesi e inglesi, oltre che dei ben noti "esportatori di democrazia"- che ai curdi viene impedito di avere un proprio Stato.


Trascorsa la notte del 28 dicembre a Silopi -la città in sé è tranquilla; ottimi alberghi, cibo eccellente, gente cordiale- la mattina successiva affronterò la frontiera con l'Iraq, che dista solo 18 km; il sito istituzionale del nostro ministero degli Esteri, come al solito, dà solo informazioni banali ed inutili, ma la gente del posto mi assicura che è aperta anche agli stranieri.
Un tassista pragmatico mi scorterà fino al confine, ma scoprirò che lo si può attraversare soltanto se a bordo di un veicolo.

Già visto molte volte, ad esempio tra Tajikistan ed Afghanistan, per dirne uno superato qualche anno prima.
In pochi minuti trovo ospitalità a bordo di un minibus diretto a Zakho, la prima città dal lato Iraqeno, e sperimenterò immediatamente la cordialità e l'ospitalità dei curdi. Sarò accolto calorosamente dai passeggeri di quel mezzo e il tempo d'attesa per la disbriga della (nemmeno troppo) farraginosa procedura burocratica alle due frontiere scorre rapidamente.
E, dunque, ero in Iraq o, meglio, nella regione autonoma del Kurdistan iracheno.
Qualunque cosa fosse, era il 117° Paese in cui stavo mettendo piede.

L'atmosfera è tranquilla, complice la (solita) fortuna trovo immediatamente il tassista giusto che mi accompagnerà ad Erbil, la Capitale. Akrem non parla inglese, ma riusciremo agevolmente a comunicare in arabo, napoletano e a gesti. L'empatia fa il resto.
Più di duecento i km in auto da percorrere, attraversando deserto&villaggi, incontrando innumerevoli posti di blocco.
Avevo letto del campo profughi siriani Gawelan, nei pressi di Duhok e chiederò all'autista se è possibile visitarlo.
Verrò accontentato.
I militari che controllavano l'accesso del campo mi accorderanno il permesso di entrare a patto -pena sequestro della fotocamera- di non fare foto. Le scatterò dall'interno dell'auto; mentre all'esterno ci penserà Akrem. Basterà sostituire la scheda per salvare il prezioso strumento, una compatta dal valore irrisorio, ma molti utile e funzionale.
Infine ad Erbil, la splendida e ricca Capitale con la spettacolare piazza centrale, sormontata dalla Cittadella. Due giorni da turista, una volta tanto.



La mia meta avrebbe voluto essere Kirkuk, città araba o curda?
Naturalmente non vi è alcun motivo ideale, storico o culturale, La lunga ed irrisolta diatriba politica non troverà mai soluzione semplicemente perché è situata su una delle aree più ricche al mondo di petrolio.
Purtroppo non potrò spingermi più sud di Qushtapa, anonima città 20 km a sud di Erbil, lungo la strada che collega a Baghdad. Troppo rischioso.
Sulla via di ritorno tappa a Duhok viaggiando in auto di uno giovanotto molto sicuro di sé che si dichiarò, dopo la partenza, combattente Peshmerg. La pistola in evidenza nel vano portaoggetti. Tutto sommato un bravo ragazzo, "nu pescetiello'e cannuccia", come dicono a Belluno. Guida spericolata a parte.
"W i Peshmerg"
"Sì, ma andate piano..."
(cit. Massimo Troisi...)
Prima di rientrare in Turchia due giorni a Zakho per visitare l'antichissimo ponte romano, ma soprattutto l'enorme campo profughi Yazida, stavolta con un imprevisto. All'uscita dal campo, passaporto sequestrato e un lungo "interrogatorio" per spiegare i motivi della mia presenza in quel luogo. Grazie alla preziosa mediazione di un rappresentante della comunità, ma soprattutto perché avevo nulla da nascondere, la vicenda si risolverà positivamente.

I pochi giorni che mi restavano spesi per visitare Diyarbakir, affascinante Capitale del Kurdistan turco; ancora una notte nella magica Istanbul e, infine, un volo Turkish Airlines mi riporterà in Patria