Dal Panama alla Colombia, la ragazza del motoscafo


"Il giro del mondo in ottantacinque giorni"


Si "toccano" per qualche centinaia di km, ma tra Panama e Colombia non ci sono punti di frontiera terrestri. 
La Panamericana, il sistema stradale che collega nord e sud America lungo la costa Pacifica presenta un'unica soluzione di continuità proprio a cavallo di questi due Paesi.
La leggenda narra che siano (stati) i cartelli dei narcos a non volere una strada che attraversasse quella frontiera, perché i controlli avrebbero potuto interferire con i loro traffici. 
Più verosimilmente la motivazione è economica: un'ampia fascia a ridosso di quel confine è costituito da foresta disabitata; la scarsa domanda non avrebbe giustificato -e non giustifica- le spese di costruzione, manutenzione e controllo di una strada.
Per spostarsi tra Panama e Colombia, quindi, si può solo volare; più di una compagnia aerea copre le tratte Panama-Bogotà/Cartagena/Medellin a prezzi ragionevoli.

Invece una soluzione alternativa esiste, al limite della legalità, sconsigliata ai turisti: via mare sulla costa caraibica passando dall'ultimo avamposto abitato panamense -Puerto Obaldìa- a quello colombiano -Capurgana-. 
In entrambi i villaggi esistono uffici di frontiera e ottenere il timbro di ingresso/uscita sul passaporto non è un problema. 
La sfida, invece, è come spostarsi da un punto all'altro, poiché non esistono collegamenti ufficiali.

Sfida raccolta. E vinta.

Visitata Panama e dintorni, il primo passo è raggiungere Puerto Obaldìa dalla Capitale. Non esistono strade, si può solo volare quattro volte a settimana con un Cessna da 12 posti di Air Panama.
E il 17 maggio a bordo di quel velivolo c'erano cinque francesi, cinque locali e un romano e un napoletano seduti dietro ai due piloti. 
Lo spettacolo dai finestrini è mozzafiato; i piloti tutt'altro che formali leggono il giornale e scherzano con noi, compreso un selfie; troppo presto comincia la discesa verso la minuscola pista di Puerto Obaldìa, incastrata tra mare e foresta. Uno spettacolo.
Dopo l'ultima foto con i piloti, ci incamminiamo nel piccolo villaggio e non è certo problematico trovare l'unico albergo. Senza clienti, e solo due, le nostre, saranno le camere occupate quel giorno. 
Del resto saremo gli unici due stranieri: i francesi con il loro tour organizzato si erano immediatamente spostati in un resort nella località accanto, La Miel, per vedere le tartarughe.
Noi, vinta una iniziale diffidenza iniziamo a socializzare e ben presto siamo sommersi di attenzioni, sorrisi e "coccole", mai fastidiosi. Una gentilissima anziana signora ci invita a casa e prepara davanti ai nostri occhi un gustoso pollo con lenticchie, riso e patate. L'unica panetteria è anche punto di ritrovo di giovani e serve dolci deliziosi, caffè e bevande fresche; ho perso il conto delle volte che faremo una sosta.

Traffico e trovare un parcheggio non sanno cosa siano anche perché automobili private non ce ne sono e tutto si svolge con una calma a cui è facile adeguarsi. Il sole torrido si alterna ad improvvisi rovesci d'acqua ed ogni volta che comincia a piovere c'è sempre qualcuno che ci offre ospitalità nella sua casa, sempre aperta. Con le indicazioni di una signora che aveva viaggiato con noi in aereo, riusciamo ad entrare sulla pista ormai vuota e la percorriamo tutta fino al mare per poi tornare al villaggio dalla spiaggia; felici come bambini, ci imbattiamo in un inaspettato posto di blocco, ben celato dagli alberi. 

"Passaporto!"
"Lo abbiamo lasciato in hotel"...

Un attimo di silenzio e poi i due soldati addetti al controllo scoppiano a ridere. Conoscevano benissimo le nostre generalità.

Mentre cala il tramonto troviamo il modo di rigettare in acqua un pesce che inopinatamente si dimenava sui sassi a qualche metro dalla riva. Orgogliosi dell'impresa, un attimo dopo scopriamo che quella era una delle preda di un gruppo di giovani pescatori che, per fortuna, non si erano accorti di nulla. 
Il tempo scorre veloce e sarà il caso di iniziare a cercare un mezzo per andare in Colombia; certo, pagando molto non sarebbe un problema trovarlo, ma noi dovevamo riuscirci spendendo il meno possibile. 
E ci riusciremo, anche a meno scoprendo che la figlia della solita signora che aveva viaggiato con noi, la mattina successiva sarebbe andata per una commissione (...) a Capurgana con il suo motoscafo.
E per pochi dollari ci avrebbe dato un passaggio.

Sarà rischioso?
Forse, ma "chi teme ogni nube non partirà mai". 
E noi partiremo.

Ci godiamo la notte a Puerto Obaldìa e la mattina seguente, effettuate le farraginose pratiche burocratiche, saliamo a bordo di un motoscafo bianco e azzurro. La ragazza è molto sicura di sé, si vede chequella tratta l'ha percorsa tante volte; non ci poniamo il dubbio se e cosa stesse trasportando e ci godiamo il panorama mozzafiato dei Caraibi, da un lato non frequentato da turisti. 
Ogni volta che incrociamo il suo sguardo risponde con un sorriso e il segno della vittoria. I venticinque minuti di viaggio passano in fretta, e siamo già nel piccolo porto di Capurgana.
Non attracca nemmeno, non è proprio agevole aggrapparsi alla banchina, ma ce la faremo. L'ultima foto, ci scambiamo il numero di telefono -una "scafista" ai caraibi può sempre essere utile- e lei riparte immediatamente. In pochi secondi scompare dietro al promontorio.

Nemmeno il tempo di rifiatare e riprenderci dalle emozioni vissute che un soldato, gentilissimo, con lo stemma giallo-blu-rosso sulla divisa ci sorride e ci invita ad andare al più presto al posto di frontiera.

Siamo in Colombia, il viaggio continua...